Fiumicino, 11 agosto 2014
Molti opinionisti hanno voluto vedere nell’elezione di Carlo Tavecchio alla Presidenza della Federazione Italiana Giuoco Calcio uno specchio della situazione più generale del nostro paese. La constatazione è ovvia quanto generica. Qui proviamo a offrire una lettura di alcuni risvolti su cui ci si è meno soffermati in questi giorni.
Muoviamo dal documento fatto circolare nei giorni scorsi da Sky [vedi], in cui l’emitente metteva a fuoco l’insostenibilità di uno scenario del calcio italiano che continui a non intervenire sul declino strutturale che lo avviluppa da almeno 15 anni, a tutti i livelli: risultati sportivi, qualità del gioco, sviluppo dei vivai, adeguamento delle infrastrutture, accoglienza del pubblico, violenze degli ultras, formato dei tornei, e ovviamente i disastrosi bilanci economici, che hanno portato al fallimento di almeno 40 società professionistiche. Il documento di Sky, poi derubricato politicamente a “informativa aziendale”, va letto come un segnale ai naviganti: “è difficile immaginare che le istanze di cambiamento provengano dalle persone che alla crisi di sistema hanno contribuito”; Tavecchio “rappresenta vecchie logiche gestionali ed è quantomeno corresponsabile dell’attuale stato di crisi sistemica. Non è un uomo di sport, ma figlio di una gestione “politica” dello sport”. Testuale.
Perché Sky ha deciso di prendere posizione così apertamente? Perché, con una procedura che definire opaca è usare un eufemismo, alla fine di giugno, nei giorni in cui la Nazionale usciva sconfitta ai Mondiali, la Lega Serie A ha venduto all’asta i diritti TV per il triennio 2015-2018 aggiudicandoli - si noti - non al migliore offerente (Sky, che minacciava di “scendere in campo” anche sul digitale terrestre) ma tenendo conto degli interessi in gioco, cioè quelli di Mediaset [vedi]. Grande cerimoniere di un compromesso che ha distribuito il becchime un po’ a tutti, il presidente della Lega Maurizio Beretta, sotto l’egida di Adriano Galliani. Sky ha iniettato 572 milioni nel sistema. Ma non è detto che sia disponibile a farlo di nuovo nella stessa misura in futuro. Aleggia pertanto - e Sky lo ha fatto ben capire - una possibile riduzione del finanziamento che l’emittente di Rupert Murdoch ha finora garantito, soprattutto se la qualità dello spettacolo continuerà a essere così modesta e declinante anno dopo anno.
Potrebbe supplire Mediaset, ma al costo, probabilmente, di cedere grossa parte (se non la maggioranza delle azioni) di Premium a partner esterni a Fininvest, come ha cominciato a fare pochi giorni fa vendendone l’11% agli spagnoli di Telefonica. Il grande squalo in attesa è Al Jazeera, ma Silvio Berlusconi non ha intenzione di vendere i gioielli di famiglia: come nel caso del Milan, dove ha preferito dismettere i campioni piuttosto che smettere di esserne proprietario, anche per Mediaset non ha intenzione di cedere. L’acquisto dei diritti in esclusiva della Champions League per il triennio 2015-2018 sono stati, a un tempo, un salasso e una scommessa a molte incognite. Difficlle credere, comunque, che nel 2018 Mediaset sia in grado di iniettare nel calcio italiano i 572 milioni immessi da Sky nel futuro triennio.
Il futuro dei club è dunque assai incerto, perché essi si sono ormai ridotti a vivere della sola rendita dei diritti televisivi, che sono voracemente consumati per pascere le ricchezze private dei presidenti e dissipati per mancanza di una cultura imprenditoriale capace di produrre nuova ricchezza. Rare le eccezioni: più o meno quelle che, infatti, non hanno votato Tavecchio. L’elezione di quest’ultimo è stata una scelta politica molto chiara: tirare a campare, consuamere l’esistente, senza pensare al futuro. Come sta facendo la maggioranza degli italiani, quella che resiste abbarbicata alle proprie rendite di posizione, mettendo in atto tutte le interdizioni possibili alle misure intese a intaccarle per il bene comune. Si tratta di un fronte, trasversarle, che attraversa ogni campo sociale e ogni settore economico, e che vive sostanzialmente di “rendita”: non solo la famelica casta dei politici, che resiste pervicacemente ad ogni minima riduzione dei privilegi, ma anche le burocrazie parlamentari e ministeriali che si oppongo in ogni modo alla limitazione delle loro prebende, gli ordini professionali che resistono ad ogni liberalizzazione di accessi e tariffe, i lavoratori dell’Alitalia che rifiutano i termini dell’accordo con l’Ethiad, i professori universitari e i magistrati che si rifiutano di andare in pensione a 68 anziché a 70 anni, i dipendenti pubblici di comuni commissariati che vivono come una condanna alla povertà il taglio di 40 euro mensili di uno stipendio che rimane comunque più elevato di quello dei dipendenti dei comuni limitrofi … E potremmo continuare con infiniti esempi possibili. E’ questa l’Italia che sta affondando il paese, perché - in anni di crisi economica - vive di vecchie rendite, senza produrre ricchezza, e consuma le riserve di quella collettiva. E’ un’Italia miope perché pregiudica il futuro dei propri figli.
Le si contrappone una minoranza di italiani che, perlopiù esclusi dalle possibilità vivere di “rendita”, è costretta o ha scelto di vivere di idee e di produzione. Anche in questo caso si tratta di un fronte trasversarle che attraversa ogni campo sociale e ogni settore economico: dai centri di ricerca che continuano a fare innovazione (e dunque, potenzialmente, a produrre ricchezza), grazie anche all’impegno di molte giovani menti, agli imprenditori che, nonostante la crisi, continuano a investire in sviluppo e in prodotti che conservano ed espandono i loro mercati all’estero, agli operai che per conservare il posto accettano la riduzione di straordinari e bonus, alle banche e alle finanziarie che non lesinano il credito, a tutti coloro che sviluppano servizi di qualità nell’educazione, nella sanità, nei trasporti, nei servizi turistici, etc. E’ un’Italia che deve quotidianamente fronteggiare la protervia delle burocrazie e delle caste che vivono del potere di interdizione e di ricatto (cioè di corruzione). Ma è l’Italia che continua a produrre ricchezza e, soprattutto, a tenere viva la speranza di un futuro per il nostro paese. E’ l’Italia che vorrebbe riforme strutturali intese a favorire sviluppo, ricchezza, e lavoro, soprattutto per i più giovani.
Qualcosa che non si intravede in alcun modo nella trama di interessi, promesse e favori reciproci che hanno portato all’elezione di Tavecchio. L’esito è drammatico non tanto per l’impresentabilità del personaggio a livello internazionale quanto per l’assenza - anzi, la privazione - di futuro che esso annuncia.