30 giugno 2013, Município de Pio XII, Maranhão (Brasile)
Se la notizia non verrà smentita - a darla è “Globoesporte” [leggi] e a riprenderla tra i primi in Italia è stato il “Corriere della sera” [leggi] -, non si ricorda, a memoria, un caso del genere: la decapitazione di un arbitro sul campo di gioco.
I fatti in breve: domenica scorsa, 30 giugno 2013 - lo stesso giorno di Brasile-Spagna, finale di Confederations Cup al “Maracanã”-, durante una partita tra dilettanti nello stato brasiliano di Maranhão, nel nord del paese, l’arbitro ha espulso un giocatore. Alle proteste di questi, il direttore di gara - il ventenne Otavio Jordão da Silva de Catanhede - ha estratto un coltello ferendolo mortalmente con due fendenti. Gli spettatori hanno invaso il campo e raggiunto Catanhede: legato a un palo, lo hanno poi lapidato, squartato e decapitato. La testa è stata esposta su un palo. La polizia ha identificato i responsabili grazie alle immagini registrate con i cellulari dai presenti, che hanno immortalato il rituale.
Perché di rituale si è trattato. Non di una violenza assurda, per quanto orribile possa apparire (ed è), ma di una violenza che segue una logica macabra, come spiega una vastissima letteratura antropologica e storica. Non si è trattato di un semplice omicidio, ma di qualcosa di più: dell’annichilimento del nemico. Come ha mostrato Paul H. Stahl (nella sua Histoire de la décapitation, Paris, PUF, 1986) la caccia alle teste, e la loro esibizione, è una pratica diffusa in tutte le società umane: la testa, per esempio, in quelle indoeuropee, era (ed è) ritenuta il ricettacolo dell’anima e della personalità. Separarla dal corpo rappresenta - a un tempo - un segno di umanità (perché segna la fine della mortalità) e di inumanità (perché subentra il soprannaturale). La stessa mitologia classica è ricchissima di decapitazioni, dalla Medusa uccisa da Perseo a Oloferne da Giuditta (come nel capolavoro di Artemisia Gentileschi). Tuttora in alcuni paesi arabi la decapitazione è adottata come pena di morte. E non infrequentemente le guerre asiatiche ci rimandano immagini di decapitazioni di ostaggi e di nemici.
L’arbitro come nemico della comunità, dunque. Semplicemente. Orribilmente. Ma non stranamente: il calcio non è solo un gioco, come ha insegnato, ormai sono 32 anni fa, il troppo spesso dimenticato Desmond Morris in The soccer tribe [vedi].