Giulio Andreotti


Roma, 14 gennaio 1919 - 6 maggio 2013

Uomo di grande intelligenza e non comune umorismo, è stato tra i principali protagonisti dell’Italia del Novecento. La sua biografia, in alcuni episodi anche controversa, appartiene ormai alla storia [Treccani]. E’ stato anche un grande appassionato di sport e di calcio, tifoso della Roma. Eupallog lo ricorda con il sorriso suscitato dalle sue famose battute.

Giulio Andreotti nasce a Roma nel 1919, lo stesso anno del fascismo e del Ppi di Don Sturzo: “Di tutti e tre sono rimasto solo io”.

Giallorosso dall’età di otto anni, ma “solo perché fino a quel momento la Roma non c’era ancora”.

“Nel calcio ho fatto una lunga carriera, non come giocatore, perché ero una schiappa, ma come tifoso. Dagli alberi al campo di Testaccio, sono finito alla tribuna d’onore”.

Il ricordo del vecchio campo Testaccio: “Di soldi a quei tempi ce n’erano pochi, ma le due lire per il posto dietro la porta le trovavo sempre. Si stava attaccati al campo, si viveva la partita come un sogno. Erano momenti di gioia intensa, i giocatori già allora erano idoli”. 

"Quando c’era educazione fisica a scuola mi allontanavo".

“Sono un tifoso, non sono né profeta, né uno che si mette in cattedra a dare lezioni a nessuno”.

"Ebbi solo un ruolo nel reingaggio di Falcao: quando chiamai la madre del giocatore e potei dirle, senza mentire, che anche il Papa aspettava suo figlio. In realtà, ricevendo la Roma, il Papa aveva domandato: ‘Ma Falcao rimane?’. Quindi non era del tutto una bugia, e la signora era stata contenta".

A un giornalista che faceva domande indiscrete sulla sua fede calcistica rispose così: “Lei mi chiede della Roma e io le dico che il finale è già scritto: ai tramonti seguono sempre le albe”. 

“Da parte mia c’è sempre stata una grande ammirazione per la famiglia Sensi, sono stati oltre che tifosi sempre sovvenzionatori dell’attività della squadra giallorossa. Loro tirano fuori i soldi, noi fischiamo o siamo felici per i risultati sportivi ma non spendiamo una lira”.

“Riguardo a Zeman non mi sembra carino continuare a chiamarlo “il boemo”. Evoca il ricordo della poesia del Giusti su Sant’Ambrogio con i soldati boemi e croati messi qui nella vigna a far da pali. Poco più avanti gli stessi militi sono chiamati: schiavi per tenerci schiavi. Di Zeman mister mi colpisce la teoria che non ha importanza il risultato, ma il giuoco. E’ la leggenda del barone De Coubertin secondo cui quel che conta è il partecipare. Sarà …”.

"Adesso spero solo che per il quarto scudetto non ci siano da aspettare tanti anni, perché non ho tantissimo tempo …": dopo la vittoria dello scudetto nel 2001.

Riconosceva ai laziali “solo i diritti umani”. Ma ebbe un figlio tifoso della Lazio. La prese con cristiana rassegnazione.

"Una volta tanto in vita mia sono contento che la Lazio abbia vinto una partita": dopo Lazio-Juventus del marzo 2001.

"Amo talmente la Germania che ne vorrei due".

Finale di Coppa dei campioni 1983 tra Amburgo e Juventus. Per chi farà il tifo? “Mi asterrò”.

"La Juventus era meglio in serie C. Ma anche in B, per un vecchio tifoso come me, è un po’ come la Rivoluzione francese": dopo la sentenza d’appello su Calciopoli nel 2006.

La sera in cui Byron Moreno mandò a casa Totti e l’Italia ai Mondiali 2002, si augurò “una finale Senegal-Corea contro il calcio dei ricchi”.

"Allenare davanti alla televisione è facile: io invece ho molto rispetto di chi gioca o fa il tecnico, perché le cose dal salotto o dalla tribuna appaiono più semplici di ciò che sono”: a commento delle dimissioni di Dino Zoff, dopo gli Europei del 2000, per le critiche ricevute dal presidente del consiglio dei ministri Silvio Berlusconi.

Quando il medico gli consigliò di fare un po’ di attività fisica, lui rispose: “Tutti i miei amici che facevano sport sono morti”. 

"Cosa vorrei sulla mia epigrafe? Data di nascita, data di morte. Punto. Le parole sono epigrafi tutte uguali. A leggerle uno si chiede: ma se sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi?".

Equilibrato profilo sul Guerin sportivo

Nella foto: Giulio Andreotti premia Angelo Domenghini (1972)